giovedì 22 novembre 2012

Ti racconto una storia 2


C'era una volta.... le storie, si sa, cominciano sempre così; allora c'era una volta una giovane psicologa con la voglia di cambiare il mondo, un grande entusiasmo e una grande speranza...... ma i tempi delle società sono molto diversi da quelli delle persone.
Così il tempo è passato e oggi c'è una vecchia psicoterapeuta, un po' stanca, ma che conserva ancora qualche speranza.
In effetti una riflessione sui bisogni psicoaffettivi dei bambini e sui problemi delle famiglie appare più’ che mai indispensabile. Prima di tutto perché’ man mano che aumentano gli studi e le esperienze intorno a questo ambito e’ sempre più’ evidente che i due termini della relazione sono ancora più’ strettamente collegati di quanto possiamo immaginare, anzi in realtà’ si tratta dello stesso problema.
In secondo luogo perché’ il lavoro sul campo che si svolge ormai da molti anni nei e con i Servizi Territoriali che si occupano dell’infanzia, confortato da numerosi, importanti e approfonditi studi e ricerche internazionali, hanno dimostrato che ci sono possibilità’ non solo di avviare ma anche di realizzare spesso processi di cambiamento e di crescita con risultati duraturi.

Molte volte in questi anni, in più’ di una occasione mi sono trovata a riflettere su “chi erano” in realtà’ i bambini messi al centro quando mi imbattevo in progetti per minori, decreti o battaglie legali fatti in nome dei “bambini” ma che li trascinavano invece in complicati e assurdi spostamenti o organizzazioni che i loro bisogni li soddisfacevano ben poco.
Eppure tutti gli adulti che erano coinvolti in quelle vicende: psicologi, insegnanti, genitori ecc. erano sinceramente impegnati a costruire qualcosa per il loro benessere; cosa interveniva, come mai era cosi difficile costruire qualcosa di adeguato?
Più’ cercavo di capire e più’ mi addentravo in storie difficili e dolorose.
Ero partita con le idee chiare: bastava intervenire con decisione e tutto si sarebbe sistemato, e mi trovavo invece a non sapere più’ da che parte stare, dietro quei bambini, i “miei” bambini ce n’erano altri, i loro genitori e ancora prima altri, i loro nonni, tutti bambini che non avevano potuto essere bambini, che avevano dovuto arrangiarsi, o peggio soccombere, essere usati, violati, perduti.
So bene di non dire niente di nuovo. Il fatto che il “disagio” minorile come si chiama in termine tecnico, costituisca una lunga, lunghissima catena intergenerazionale e’ ormai fatto ampiamente noto e viene sottolineato spesso da tutti gli addetti ai lavori. Mi sembra pero’ importante riprendere da li’, dalle mie impressioni di allora che ho condiviso con decine e decine di colleghi durante questi 30 anni, che ritrovo con la stessa pena e lo stesso peso, appunto, dopo 30 anni di lavoro, di preparazione, di studi e di interventi.
Vecchiaia? Senz’altro. Impreparazione? Forse. Incapacità? può darsi. Me lo sono chiesta ripetutamente in questo ultimo mese ogni volta che piena di entusiasmo mi mettevo a preparare il mio intervento di oggi.
infatti alla lettura dei nomi e del ruolo dei relatori di oggi, del programma e degli obiettivi mi ero sentita piena di idee: mille cose da dire si erano affollate alla mia mente, nomi, casi vissuti, progetti, metodi sperimentati. Invariabilmente di fronte alle pagine da riempire di parole per poter comunicare qualcosa di sensato, tutto spariva, un peso, una pena occupava tutta la mia mente e rendeva difficile trovare il resto.
Era in realtà’ questo il primo aspetto del problema, quello di fronte a cui tutti si trovano quando vogliono “vedere”: un bambino in difficoltà’ e ancora peggio ignorato, maltrattato, abusato va a toccare corde cosi’ profonde dentro di noi, arriva spesso, anche nella migliore delle vite, a risvegliare dolori cosi’ lontani e ormai incomprensibili che “non vorremmo vedere”.
I bambini devono essere felici... voglio che mio figlio sia felice e non soffra mai”, sono frasi comuni e desideri di tutti, il bisogno di allontanare un dolore intollerabile con una immagine ideale.
E’ una difesa comune dentro tutti noi e diventare adulti, far crescere definitivamente il bambino che siamo stati significa proprio accettare che nessuno può’ togliere il dolore, una parte di dolore e’ inevitabile.
Razionalmente lo sappiamo e riusciamo anche abbastanza a far fronte ai normali problemi, ma il dolore profondo e inelaborato che esprimono e ci portano le famiglie che chiamiamo <in difficoltà> e ancora di più i loro bambini ci sommerge e ci fa tornare spesso a quella condizione di impotenza della nostra infanzia.
Anche l’idea di genitori che non sono capaci o buoni, anche se mentalmente chiara, muove dentro di noi lontane e ormai inconsce paure ed emozioni, quelle delle nostre rabbie infantili e del nostro terrore di perderli o di averli rovinati per sempre.
Infine ancora più difficile è arrivare a formulare il progetto di separare un figlio dai propri genitori perché questo va ancora più profondamente a toccare quel meccanismo con basi biologiche che è l’attaccamento cioè il bisogno di protezione per la sopravvivenza della specie che fin dai primordi dell’umanità ci accomuna agli altri mammiferi.
Tutto questo se non possiamo divenirne consapevoli spinge chiunque venga a contatto con queste realtà :

  • A minimizzare e a non vedere perché’ questo e’ un modo inconscio per soffrire meno (questa difesa e’ tanto più’ forte quanto maggiore e’ il dolore per quello che succede. Possiamo ricordare quello che succedeva in Germania di fianco ai campi di sterminio dove i contadini “non vedevano” quanto avveniva.).

  • A intervenire portando sollievo materiale:oggetti, cibi, soldi perché (sempre inconsciamente) la mancanza di cose materiali viene sentita come causa principale in quanto sicuramente più facile da affrontare ed eliminare. Spesso in tutti gli interventi “sociali” viene indicata almeno come una delle concause mentre per chi lavora da molto tempo in questo settore è ormai chiaro che la carenza di mezzi economici (naturalmente in condizioni di normalità’) è la conseguenza di una incapacità ad essere adulti e perciò a procurarsi e mantenere tali mezzi.
  • A esercitare riprovazione e trovare colpevolezze. Anche questo ha alla base un meccanismo di difesa inconscio che permette di tollerare un po’ meglio il dolore in quanto permette a chi soffre di aggrapparsi all’idea che se chi e’ colpevole non lo fosse i bambini starebbero bene e non avrebbero problemi.

Tutto questo sembra molto banale ma non lo è perlomeno fino a quando non ci accorgiamo che succede dentro di noi e intorno a noi; che ci impedisce di vedere il bambino vero che sta lì fuori di noi, davanti a noi, con tutte le sue fragilità e bisogni ai quali dobbiamo provvedere adesso in modo che cresca più sano dei suoi genitori.
Questo costituisce il freno più frequente quando ci troviamo a dover decidere di separare i bambini dalla loro famiglia. Il senso di colpa che proviamo spesso proviene da quei nostri sentimenti lontani che vediamo moltiplicati nel dolore di questo bambino e dei suoi genitori.

Crescere per tutti significa superare il dolore di quella separazione e accettare che la sofferenza esiste ma molto si può fare.

martedì 13 novembre 2012

I diritti dei bambini ... Ma che diritti sono?



A pagina 17 su un terzo di pagina, non importa di quale giornale, meno importante perfino di “Curcio che filosofeggia anche su Rostagno”, l'articolo che occupa gli altri due terzi dello stesso spazio, la notizia di due fratellini di 8 e 12 anni uccisi dal padre. In realtà non fa nemmeno notizia.
Può sembrare un fatto di cronaca nera: un padre malato di mente, una disgrazia, fa parte della vita...
Ma le cose, viste da vicino, non stanno così e non solo in questo caso.
Il sindaco della cittadina in cui si era rifugiata la mamma dei piccoli, dopo avere lasciato il marito violento, mette giustamente in rilievo: “Un uomo ha scaricato la sua insensata rabbia sui figli, uccidendoli senza alcuna pietà. Due vittime innocenti che hanno pagato con la vita dissidi e tensioni familiari” (Il Fatto Quotidiano, giovedì 8 novembre). E aggiunge “In questo caso non si può certo parlare di emarginazione sociale.” perché la mamma con i due piccoli era stata accolta bene nel nuovo Comune ed era bene inserita anche in quello precedente.
Appunto la rabbia cieca, la violenza; ma anche gli abusi, i maltrattamenti, gli sfruttamenti nascono da dissidi e tensioni familiari e si scaricano sempre sui più deboli: i figli.
Sappiamo che spesso, spessissimo i genitori non sono e non riescono ad essere consapevoli di ciò che fanno. Negli ultimi trent'anni qualcosa è certamente cambiato, a cominciare dalla legge sull'adozione, che prima metteva al centro gli interessi degli adulti che volevano lasciare una eredità e invece con la legge 184 ha messo al centro il bambino con le sue necessità. In questi trent'anni l'idea che i figli sono una proprietà dei genitori ha iniziato a modificarsi; ma non ci rallegriamo troppo.
La strada è ancora lunga e alcune leggi che tutti ritengono “avanzate e civili”, e come tali vengono evocate e richieste, in realtà nascondono ancora in modo sottile e, speriamo, inconsapevole,  bisogni e necessità esclusivamente degli adulti.
Per essere più chiara mi riferisco alla richiesta sempre più forte di concedere l'adozione alle coppie gay/lesbiche, oppure alle pratiche di inseminazione   cui tanti, di ogni età, ricorrono per avere figli non riuscendoci “naturalmente”.
Viene dovunque sbandierato tutto questo come un “diritto” a diventare genitori; ma quasi mai si sente parlare invece di un dovere di essere genitori adeguati a cui i bambini hanno, loro sì, diritto.
In realtà: di quale diritto stiamo parlando? Diventare genitori non è un diritto, bensì una condizione in cui ci si può trovare e che si può  scegliere. Appunto gli adulti possono scegliere se diventare genitori o no. I bambini non scelgono.
Certo credo che tutti abbiano diritto di scegliere se diventare genitori; ma prima di tutto, come in molte altre situazioni, per fare questa scelta è indispensabile almeno interrogarsi e forse un po' verificare cosa essa comporti e quanto sia davvero alla nostra portata.  Dunque chiedersi a cosa ha diritto un bambino che viene messo al mondo e scoprire se siamo e vogliamo essere in grado di offrirglielo.
Perché per diventare guida alpina, pilota di aereo, anche solo insegnante, cioè  condizioni in cui si incide o si ha qualche responsabilità nella vita altrui, ci si deve  preparare e spesso superare giustamente esami o controlli; mentre, al contrario, a chi vuole mettere al mondo un figlio o prendersene cura non deve essere chiesto niente, ma solo concesso un diritto: come se si trattasse di acquisire beni o oggetti di esclusivo uso e proprietà personale …
Ci scandalizziamo spesso quando ricordiamo il pater familiae con diritto di vita e di morte sui figli; ci sembra che in quella società così avanzata questo fosse un retaggio di inciviltà. Siamo tuttavia sicuri di essere così lontani da quel modo di pensare se riteniamo che i figli siano un diritto e se non vogliamo accorgerci che tutte le tensioni, le rabbie, le consapevoli e inconsapevoli difficoltà coniugali e familiari finiscono per ricadere direttamente e indirettamente proprio su di loro?

Milano, 13 novembre 2012                                           Donatella Fiocchi

sabato 3 novembre 2012

“E' colpa mia se...”: ma di chi è la colpa?

L'aria un po' umida del primo autunno fa tirare su il bavero della giacca e rende piacevole il tepore “umano” dell'autobus.
Salgo di fretta prima che riparta veloce e mi trovo stretta nel piccolo spazio fra gente che va al lavoro, insegnanti, domestiche, qualche impiegato, e ragazzi con gli occhi ancora assonnati che trascinano gli zainetti.
Sono assorta nei miei pensieri: cosa mi riserva la giornata, chi devo incontrare per primo... sono ancora immersa nell'atmosfera di casa, adesso ovattata e silenziosa perché i figli hanno ormai spiccato il volo.
E' colpa mia se ...” il timbro duro ma sofferto di una voce al mio fianco oltrepassa la cortina dell'isolamento in cui ancora mi rifugiavo, forse anche perché quel tono e quelle parole costituiscono spesso per me una allerta speciale.
Di fianco a me, la nuca leggermente china, le spalle insaccate in un giaccone per contrastare i primi freddi, metto a fuoco una figuretta un po' informe che solo per il taglio corto dei capelli, la statura come la mia (non sono troppo alta!) un senso quasi rassegnato che emana da tutto il corpo individuo come quella di un ragazzino di 11 o 12 anni circa.
Al di sopra della sua spalla emerge la testa di una donna; difficile darle una età: capelli scuri tagliati corti, viso giovanile ma un po' sciupato, l'espressione dura, gli occhi severi; la madre suppongo.
Il suo rimprovero aspro continua incurante di chi sta attorno: “ ...è colpa mia se non ti svegli al mattino, è colpa mia se ci metti un secolo a fare colazione, è colpa mia se non ti sai vestire, è colpa mia se ti devo accompagnare ...” non seguo l'elenco delle colpe, incalzante e senza via d'uscita, ma penso all'intervento educativo che si sta svolgendo davanti ai miei occhi.
Penso a quanto deve essere esasperata quella madre ma anche a come è difficile avere 11 anni e uscire dall'infanzia. I miei pensieri si allontanano vagando nel tempo richiamati da un tono che forse mi suona familiare ... e poi non sono ancora in studio e non voglio entrare in storie altrui. 
Mi appare il viso ancora da bambino di mio figlio che timidamente si misurava col mondo “senza protezione”, vedo gli occhi increduli e sperduti del secondo, molto più in difficoltà...
Le “colpe” che continuano a snocciolarsi incessanti al mio fianco mi riportano a ...ma l'autobus si ferma. Siamo di fronte a una scuola, madre e figlio scendono portandosi via anche tutti quei suoni così acuti e pungenti su cui le porte si richiudono riportando il silenzio.
Li seguo con gli occhi, come a dare loro un saluto: sono entrati un po' nella mia vita. D’un tratto la madre, quasi con un gesto riflesso e sempre rovesciando sul figlio parole per me ormai senza suono, toglie dalle mani del ragazzo - che lo avevano trasportato fino a quel momento - lo zaino a rotelle carico di libri e insieme si avviano verso il portone d’ingresso.
Chissà certe volte non ci accorgiamo....

domenica 28 ottobre 2012

Cosa significa decantare?

Nel significato chimico “far sedimentare e quindi separare due elementi in tutto o in parte non miscibili”; si usa in genere per il vino per il quale si tratta di rendere più prezioso il liquido che si beve, liberandolo dalle impurità che si depositano sul fondo. Si usa anche per l’acqua perché quella che si beve sia più pura e quindi migliore, con l’idea che, in questi casi, alcune sostanze “sporchino” o rendano più torbido, meno intenso quello che invece è prezioso per il nostro corpo o il nostro gusto.
E’ un termine che si usa anche in senso figurato e significa “rendere puro un sentimento, un’idea, uno stile, liberandolo da tutto quanto non è perfettamente fuso con esso”, o anche “liberare da sovrastrutture, da elementi estranei”. Il significato sembra chiaro per quanto riguarda una idea, uno stile, molto meno per quanto riguarda i sentimenti, cosa significa liberarli dalle sovrastrutture? Quali sono gli elementi estranei che rendono meno puro un sentimento? E cosa significa che un sentimento sia puro?
Si usa dire che bisogna lasciar “decantare” le passioni ma questo, in genere vuole solamente dire lasciare che si affievoliscano, che siano meno intrise di tutto quanto proviene dal corpo e divengano qualcosa di più intellettuale e, apparentemente, dominabile. Qualcosa dunque che non è più un sentimento.
Non vorrei spaventare nessuno con queste considerazioni, né fare della letteratura, ma semplicemente riflettere un po’ su cosa spinge spesso chi lavora con le persone e, in particolare, con famiglie o affetti di tipo familiare, come nelle situazioni di affido o di adozione, a usare questo termine con la determinazione di esser nella “verità” quando viene tagliato ogni tipo di rapporto.
Forse il termine è usato nel suo significato chimico: il bambino e i genitori (d’origine, adottivi o affidatari) non sono “miscibili” e dunque farli stare lontani serve a farli separare? Oppure la famiglia che ha avuto con quel bambino delle difficoltà o che, per particolari problemi, non lo ha potuto tenere è solo una sovrastruttura, un elemento estraneo di cui quindi bisogna liberarlo?
A volte e anche di frequente sembra proprio che l’idea sottostante possa essere questa, una idea però che sembra considerare, anche se in modo inconsapevole, il bambino o gli individui di una famiglia come elementi chimici sui quali si possano fare, con successo, operazioni “chimiche”.
Forse sarebbe il desiderio di tutti, in chimica gli “elementi” non soffrono, si possono spostare, unire, separare, mescolare, dividere e si hanno sempre risultati prevedibili e “indolori”.
Fra le persone, e ancora di più fra gli adulti e i bambini non è così.
Fra loro passa una corrente, l’affetto, che chimica non è, diventa un legame, un filo invisibile ma robusto che collega gli individui e li tiene uniti.
Fra gli adulti e i bambini affidati alle loro cure poi, questo legame ha una importanza e un peso particolare perché affonda le sue origini e la sua ragione addirittura nello sviluppo della specie.
Fin dalla metà del secolo scorso sono stati fatti numerosi studi sul significato dei legami fra individui e sugli effetti patologici della loro mancanza o distruzione.
Lorenz, con la sua teoria dell’imprinting, ha messo in luce fra i mammiferi quello che gli studi di Bowlby sull’attaccamento hanno scoperto fra gli uomini: gli intensi legami fra adulto e bambino hanno un profondo significato per uno sviluppo adeguato dei piccoli.
Egli dice esplicitamente “ Le figure verso le quali esso ( l’attaccamento) è diretto sono figure amate… la minaccia di perderle crea angoscia e una vera e propria disperazione”. 1
Ma questo attaccamento, legame di intensità e profondità speciali, non si sviluppa con chiunque ma solo con la persona che con continuità si occupa di lui, soddisfa i suoi bisogni ma soprattutto risponde ai suoi segnali, gli offre “calore” e svolge per lui una funzione di filtro e di “traduttore” di tutte le esperienze emotive altrimenti violentemente incomprensibili.
Dunque principalmente con la madre o con chi svolge questa funzione, perciò sicuramente anche con madri adottive o affidatarie.
La forza di questo legame si attenua durante la crescita ma dura fino all’adolescenza ed oltre e, se ben costruita e sviluppata, costituisce la base della sicurezza e maturità affettiva della vita adulta.
I legami perciò, e specialmente i legami affettivi, quello con la figura materna in modo particolare, sono dunque le nostre radici e come le radici tengono in piedi l’albero e lo ancorano al suo terreno, ne permettono l’alimentazione e la vita, così i legami affettivi e familiari ancorano il bambino a un ambiente e lo aiutano a costruire dei riferimenti stabili che gli permettono di conoscere ed imparare, quindi di vivere.
Su questo si basa l’utilità delle esperienze di affido che permettono di sostituire, ove mancante, e integrare, ove carente, questo fondamentale rapporto con una figura materna e/o una famiglia sostitutiva, possibile fonte di attaccamenti secondari.
Ma se svolge o integra questo legame fondamentale allora anche il rapporto di affido diventa un legame profondo e vitale, legato alla crescita sana dell’individuo che ne è al centro e va dunque trattato con molta cautela e capacità di capire cosa vi succede.
Non può perciò diventare, come dicevo all’inizio, qualcosa che si può creare o tagliare senza conseguenze quando le circostanze ci sembrano richiederlo.
Può capitare, per mille circostanze della vita, che i bambini e i “genitori” sia d’origine che affidatari, non possano continuare insieme la loro strada, ma si deve sempre tenere molto in considerazione il legame che si è creato fra loro aiutando entrambi a mantenerlo il più possibile nelle forme e nei modi possibili e utili al bambino.
Troppo spesso chi si trova a gestire questi rapporti, intuendone la complessità e la profondità ma non potendo usufruire di una chiara comprensione di ciò che accade, tende a trattarli come “elementi chimici”, basta “tagliare” “far decantare” e tutto si sistema, si purifica.
Non solo non è così, ma questi tagli improvvisi, queste rotture senza ragione, oppure, senza che il bambino ne capisca profondamente il motivo, ove questo ci fosse, lasciano solamente un enorme dolore, grandi difficoltà a ritrovare un equilibrio e una sicurezza affettiva e, in più di un caso, addirittura patologie dello sviluppo non sempre riparabili.
E’ vero che non è facile affrontare il dolore di una separazione da chi ha, nella nostra vita, avuto una presenza, un significato importante, lo sappiamo bene quando, anche in tarda età, vediamo morire un genitore.
Ma quando, pur dovendoci separare, rimane un contatto, una possibilità di ritrovarsi, pur saltuariamente, e magari capire insieme e insieme sopportare la difficoltà che si è creata, diventa un modo per crescere e diventare adulti.


Donatella Fiocchi

28 ottobre 2012
1 J. Bowlby Attaccamento e perdita Torino 1976, Boringhieri

mercoledì 24 ottobre 2012

ALLONTANARE UN BAMBINO DALLA SUA FAMIGLIA: SI PUO' ?


Vorrei fare qualche considerazione in più sulla vicenda di Leonardo, il bambino allontanato dalla mamma con cui viveva e portato via dalla polizia. 

Appena il fatto accade tutti i giornali e le televisioni sono pieni di immagini, di recriminazioni, di pareri indignati. Tutti hanno una loro ricetta, difficilmente viene visto il complesso quadro di relazioni, persone, comportamenti, leggi, che sta dietro a questo ultimo atto. L’emozione suscitata dalla scena messa in prima pagina offusca tutto, anche la capacità di pensare. Poi tutto svanisce e nessuno si chiede più niente fino alla prossima vicenda simile o similare che suscita analoghe emozioni.

Non si può tollerare il dolore, ancora meno se ci pare che coinvolga bambini e sembra che la soluzione ideale sia quella di pensare che i bambini non soffrono mai e per questo è sufficiente che stiano con i loro genitori naturali: staranno bene senz’altro. Alla notizia che un bambino viene allontanato dalla sua famiglia,  dalla madre, o dal padre, tutti insorgono, si ribellano, tornano a galla inconsapevoli antichi bisogni e nessuno si chiede: ma quella mamma, quel papà, quella famiglia sono in grado di far bene il loro compito? Sono sufficientemente capaci di aiutare il o i loro figli a crescere sani?

Perché ormai si sa, anche se è una acquisizione abbastanza recente (una trentina d’anni o poco più), che le persone crescono sane grazie anche alla capacità dei genitori. Certo è ancora molto difficile pensarlo, e ogni volta che si parla di un bambino e di una famiglia, senza accorgercene, ognuno di noi pensa alla propria famiglia, ai propri genitori, ai propri fratelli. Sì, certo si litigava, molte volte abbiamo forse pensato “fortunata la mia amica Maria che ha una mamma così dolce; beato il mio amico Luigi che ha un papà che gli fa fare quello che vuole, ecc.” ma poi se o quando abbiamo pensato di doverli lasciare lo strappo sembrava intollerabile.

Purtroppo non per tutti le cose stanno così.

In tanti anni di lavoro con le famiglie si è scoperto che il mondo degli affetti è davvero ingarbugliato: ci si vuole bene ma questo non basta per andare d’accordo; si mettono al mondo dei figli ma questo non basta a permetterci di saper fare i genitori, si crea una famiglia ma questo non basta a farla funzionare in modo che chi ne fa parte stia bene. Ci sono genitori che per tante ragioni non hanno potuto essere figli e come possono avere imparato com’è un genitore? Ci sono adulti ancora pieni di necessità e bisogni, come possono occuparsi dei bisogni di qualcun altro, pure se loro figlio?

Ma i piccoli non possono aspettare, così, anche se difficile bisogna che qualcuno si carichi questo dolore: quello di un bambino che sta male perché non riceve quello che gli serve e quello di un genitore che sta male perché sente che non riesce a dare al figlio quello che dovrebbe. Bisogna che qualcuno pensi a loro, capisca cosa succede, pensi a  una soluzione, abbia la forza di metterla in pratica.

Ma chi è questo qualcuno? Questo genitore supplente che può farsi carico di tutto ciò?

Per la mia esperienza è un peso equamente diviso fra Giudici del Tribunale per i Minori e Psicologi e Assistenti Sociali dei Servizi, un compito duro e difficile che richiede una grande preparazione, molto supporto e condizioni di lavoro che la politica non offre mai.

Così accade che ci siano i Leonardi portati via dalla polizia e che i cittadini di domani invece di crescere sani vadano a ingrossare le file della fascia più disgraziata della società: delinquenti, malati mentali, drogati.

Molto si potrebbe fare ma chi dovrebbe creare le condizioni per farlo non se ne occupa.

Milano 24 ottobre 2012                                  Donatella Fiocchi

domenica 14 ottobre 2012

I FIGLI CONTESI: OCCORRE LA POLIZIA?



Venerdì la vicenda del bambino di dieci anni portato via a braccia dalla polizia davanti a una folla di altri bambini sicuramente angosciati, alla madre furente, ed a una zia che filma e diffonde le immagini senza alcun rispetto per il nipote. La settimana precedente   una figlia contesa fra due genitori che litigano. Purtroppo vicende di ordinaria amministrazione all'onore della cronaca solamente perché  “spettacolari” – nell’accezione orribile che questa parola ha assunto oggi – o perché qualche aspetto (la sentenza contraria al “volere” della figlia o la violenza dell' “esecuzione” ) può suscitare una immediata quanto fugace commozione.

L’amara realtà è che  il dolore dei bambini coinvolti in queste vicende  non riesce proprio a diventare « ordinaria amministrazione ».  Dietro a questi fatti c'è  la sofferenza autentica dei figli che  si trovano in mezzo  a due genitori che litigano e che, quasi sempre senza accorgersene, spesso non sono neppure capaci di “vedere” il figlio vero con i suoi bisogni e desideri, adulti irrealizzati perché incapaci di uscire dall’involucro dei bambini che furono . 

Qualcuno se ne accorge: cito da due lettere comparse su Il Fatto quotidiano. “In nome dell'amore paterno e materno non ci si perita a contendersi i figli come se fossero nostra proprietà e si scatenano guerre terribili sulla loro pelle… In nome dell'incarico professionale ricevuto i legali non si peritano di fomentare queste guerre… In nome della legge e della sua applicazione tutti i metodi diventano buoni pur di eseguire il compito…  Le contraddizioni degli adulti si scaricano sempre sui bambini, sui ragazzi, sui giovani… Si è cercata la spettacolarizzazione forzata di un dramma utilizzando ...le immagini fornite da una delle parti in causa.... inducendo così ... a parteggiare, de facto, per una delle due fazioni... Come potrà crescere questo bambino che non ho mai sentito chiamare figlio?” (Mail box di sabato 10 ottobre).

Per fortuna è vero, come conclude una delle due lettere, che “sono moltissime, in Italia, le persone che, lontano dai clamori, in silenzio, vivendo la loro lacerante  condizione di separati/e cercano di non farla pesare sui figli.” Tuttavia  sono ancora moltissime  anche le situazioni in cui invece si cerca con tutti i mezzi di ottenere quello che viene ritenuto un diritto: avere un figlio tutto per sé, senza potersi rendere conto che avere un figlio non è un diritto ma un compito, una responsabilità che ci si assume verso il bambino e verso la società tutta di cui i nostri figli saranno i cittadini di domani.

Il rapporto fra genitori e figli non è solo una questione di diritti o di responsabilità; ma in tutti coloro che si avvicinano a queste vicende suscita  emozioni importanti, profonde  perché tutti siamo stati figli e qualcosa risuona dentro di noi ogni volta facendoci prendere posizione per l'uno o per l'altro, sulla base della nostra esperienza. Così in realtà si perde di vista nella sua complessità il problema esterno, reale, e tutti, giornali, televisioni, avvocati, giudici, assistenti sociali e, spesso, anche psicologi, partono per una crociata di cui ognuno vede soltanto un aspetto: quello più prossimo alla propria esperienza diretta, vicina o lontana, 

Per tornare al problema contingente: è ammissibile consentire che un minore resti esposto per un tempo prolungato al conflitto, a volte accanito e feroce, tra i suoi genitori? L’evidenza che ho raccolto attraverso la mia pluridecennale esperienza professionale, ed anche come perito del Tribunale dei minori di Milano, mi fa concludere che la risposta non può che essere negativa, se l’obiettivo che ci prefiggiamo è la salute fisica e psichica del bambino.

E dunque? La risposta ci riconduce al tema della professionalità. Non spetta alle forze dell’ordine preparare il difficilissimo intervento di allontanamento nel modo corretto. Questo è piuttosto un compito dei Servizi Sociali: si tratta di preparare il minore, di coinvolgere gli insegnanti affinché possano assistere nella necessaria mediazione verso i compagni, di studiare i tempi in modo da impedire intrusioni che in definitiva altro non fanno che rendere più lacerante una situazione già di per sé sufficientemente dolorosa … Il chirurgo deve intervenire all’interno di quanto più intimo abbiamo: il nostro corpo. Ed anche in questo caso egli può agire in modo violento ed irrispettoso della dignità del malato, oppure usare tutte le preoccupazioni perché questi non si senta un mero oggetto – come il bambino preso per le braccia ed i piedi del filmato – bensì in definitiva un essere umano.

Resta un’ultima, fondamentale questione. In un simile contesto è giusto ascoltare la voce del bambino? La legge dice di sì: ma questo cosa significa? Ne riparliamo nel prossimo post.

Milano, 14 ottobre 2012                                            Donatella Fiocchi

mercoledì 3 ottobre 2012

Ancora non dorme? Cosa posso fare?




"Conforto controllato - Addestrarli al sonno si può": questo il titolo dell'articolo apparso sul Corriere della sera sabato 22 settembre a proposito dei risultati di uno studio pubblicato su "una delle riviste scientifiche più prestigiose a livello internazionale dedicate alla pediatria" e avente come oggetto il comportamento dei genitori di un piccolo al momento del sonno. Ci si sente intimiditi anche solo di fronte al nome di un periodico di tanto prestigio e fama e quindi un genitore, soprattutto se alle prime armi, sarà incline a seguirne le indicazioni alla lettera.
Si può farlo piangere (il bambino) senza ripercussioni sulla personalità futura del bimbo e senza provocargli irreparabili danni psicologici” … ma attenzione: purché in modo soft! “ Lacrime … ma per periodi brevi “ sintetizza la giornalista e spiega come lo sleep training comprenda due metodi definiti sicuri: il controlled comforting e il camping out.
Nell’articolo viene rispolverato dall’oblio persino il vecchio metodo del dottor Spock; quindi è citato il parere di un importante primario neonatologo milanese che suggerisce altre regole.
Per maggiori dettagli sui vari metodi rimando alla lettura diretta del testo; qui mi limito a segnalare che, inframmezzati alle varie indicazioni, fanno capolino i pareri di varie mamme, grazie ai quali alla certezza delle regole finisce per contrapporsi la realtà quotidiana e la molteplicità delle situazioni, delle considerazioni e dei punti di vista.
Quale è la situazione migliore?” si chiede la giornalista. E questa sembra essere la stessa domanda che tutti i genitori di bambini piccoli si fanno di fronte a un problema che li mette, anche se in modo diverso, molto spesso in difficoltà. Quale è la condotta giusta che permetterà di non sbagliare e ottenere il risultato voluto ? Forse è il caso di rinunciare a regole universali, ed accettare la complessità della vita reale …
Dietro a tanti studi e dibattiti emerge tutta l’ansia e la responsabilità che sente un genitore nell’allevare un figlio, la paura di fargli del male, di rovinarlo per sempre; ma anche il bisogno di non essere travolto da questa paura: “ piuttosto gli pagherò lo psichiatra da grande, ma io devo vivere... “ si lascia sfuggire una mamma. E, come sempre, di fronte alla paura (la nostra) e al dolore (del figlio) ci si aggrappa, senza accorgercene, all’idea che esistano delle regole, un modo per non sbagliare; un metodo che impedisca di soffrire e permetta di essere soltanto e sempre felici.
Sfortunatamente non è così, ed a noi tocca sostenere il peso dell’incertezza che quello che facciamo “vada bene” per questo piccolo sconosciuto. Purtroppo dobbiamo ammettere di non essere in grado di dare solo benessere: tutto quanto è utile e importante fare è accettare che, nonostante i nostri sforzi, nostro figlio incontri le sue difficoltà e, anche se col nostro aiuto, provi a superarle.
Come se fosse facile ! Ma questa è un’altra storia e ne parleremo.

Milano 3 ottobre 2012                                 Donatella Fiocchi

venerdì 28 settembre 2012

 Parliamo ancora di Affido....

 Cosa succede quando un bambino in affido entra in una famiglia? I genitori hanno scelto; ma i figli?
Molto spesso le coppie che si presentano sorridono rassicurate: <Abbiamo chiesto anche a loro e sono d’accordo!>.
Una immagine di famiglia democratica serena e ben funzionante se i figli ancora in casa sono ormai degli adulti ma che corrisponde piu’ ai nostri desideri che alle necessita’ nel caso di figli piccoli o che non abbiano ancora raggiunto una autonomia emotiva. Proviamo insieme a capire perche’.
Un adulto in genere e’ in grado, quando si trova di fronte ad un impegno, di valutare abbastanza adeguatamente le difficolta’ che comportera’ questa scelta, le forze necessarie per portarla a termine, quelle che lui stesso si sente di poter mettere in campo.
Questo ovviamente sul versante maturo e razionale.
Sappiamo tutti pero’ che questa non e’ la sola componente in gioco; a questa si aggiungono molte altre spinte non sempre (adeguatamente) valutabili neppure da un adulto: il desiderio di fare quella scelta; altri impulsi collegati con le emozioni profonde di cui siamo ben poche volte consapevoli ma che spesso sono i piu’ potenti; motivazioni sociali alle quali non ci vogliamo o sappiamo sottrarre...
Un bambino non si trova neppure in questa abbastanza confortante situazione: gli impulsi che derivano dal mondo delle emozioni e fantasie precoci sono molto piu’ forti delle sue capacita’ razionali, non ha ancora una sufficiente conoscenza delle situazioni e delle difficolta’ per valutarne la portata e, in ogni caso, come accennato, la forza del suo Io non e’ ancora sufficiente, spesso, a permettergli di scegliere. Tanto meno e’ in grado di valutare le proprie forze che deve ancora imparare a conoscere e ad usare appoggiandosi e facendo riferimento in gran parte per molto tempo proprio sui genitori.
Questa premessa per sottolineare come sia indispensabile percio’ che anche la decisione di far entrare nella propria famiglia un altro bambino, che si tratti di adozione o affido, come nel caso in cui si sceglie di mettere al mondo un figlio, venga presa totalmente dai genitori.
Le fragili spalle dei figli, sopratutto se ancora minorenni o peggio se piccoli, non possono sopportare senza danni un peso che appare subito importante anche per gli adulti della famiglia; cosi’ importante da doverlo condividere.
E’ vero che si tratta di una decisione difficile e piena di incognite ancora maggiori di quelle che comporta mettere al mondo un figlio ma proprio per questo non sono i figli e i bambini a poter valutare e scegliere. Certo un loro entusiasmo o approvazione iniziale ci rassicura ma che valore puo’ avere? Si puo’ in un momento successivo di fatica e di dolore troppo grandi obiettare a un figlio che lo ha scelto e quindi non puo’ tirarsi indietro?
Credo che chiunque senta che non si puo’, allora come poter prendere questa difficile decisione?
Da un lato, come accade per qualunque altra decisione e particolarmente per quella di avere un altro figlio, valutando quelle che sono le ragioni che ci spingono a fare questo passo e confrontando queste e il desiderio che ci spinge a farlo con la situazione generale della famiglia e le possibilita’ visibili e coscienti di assumersene il peso.
Certo pensando all’affido rimane un margine abbastanza ampio di difficolta’ in quanto si tratta di una situazione in cui le famiglie normali non sono in grado di valutare quello a cui vanno incontro.







lunedì 24 settembre 2012

VI RACCONTO UNA STORIA ...

Iniziamo questo cammino con un po' di speranza. In attesa di commenti e richieste buona lettura.


C'era una volta un re...no, questa storia non comincia così, non parla di re e regine ma forse una magia si compie ugualmente.

Alì ha otto anni e la sua pelle scura, i grandi occhi nocciola risaltano sulle lenzuola bianche dell'Ospedale. Viene da un piccolo paese dell'Africa e ha la leucemia. 
Ha già perso molto tempo da quando la malattia è stata scoperta: il suo paese, troppo povero, non riesce a rimborsare le spese sanitarie della grande nazione europea a cui si appoggia e Alì è rimasto là col suo male che gli divora il sangue. 
E' passato un medico italiano: a Monza c'è un reparto all'avanguardia per la cura delle leucemie infantili, qualcuno pagherà. 
Così ci conosciamo: lui piccolo, estraneo, in un mondo sconosciuto si aggrappa al padre che partirà domani; se non torna a casa gli altri fratelli e la mamma non sapranno come vivere. Io sono un dottore che non fa le punture: Alì ti ho portato un papà e una mamma che ti vorranno bene fino a che non potrai tornare a casa.
Il suo viso resta triste, lo sguardo va all'uomo alto e magro a fianco a lui che lo tiene per mano: questo è mio padre e se ne andrà domani, a casa, con tutti gli altri! Forse sono stato troppo cattivo! 
Un bambino non è mai troppo cattivo, ha solo bisogno di aiuto ma Alì ancora questo non lo sa.

Marta e Roberto si alternano nella sua stanzetta giorno e notte aiutati, a volte, da Marina e Giulio, i loro due figli già grandi; si scambiano i camici, le mascherine. La febbre non scende, gli esami vanno male. A casa, la stanza che hanno preparato per lui resta vuota a lungo.
Io torno in Ospedale due volte alla settimana, parliamo in francese, la lingua ufficiale del suo paese; parliamo di casa, di mamma, dei fratelli; parliamo qualche volta delle sue rabbie, dei suoi desideri prepotenti, della vita di là, dei compagni.
Una mattina di Aprile ancora fredda ma luminosa Marta mi chiama:: "Possiamo andare a casa, il secondo ciclo di chemioterapia è finito e Alì sta meglio". La primavera è in arrivo ma la strada è ancora lunga e difficile.
A casa di Marta e Roberto Alì può riprendere i contatti oltre che con la vita con il suo paese: un bel poster sopra il suo letto, alcuni documentari che Roberto ha cercato in cineteche specializzate, qualche ricetta tradizionale africana... non è “casa” ma c'è tanto calore e Alì può iniziare a fidarsi. Ogni tanto può rifugiarsi nelle braccia confortevoli di Marta, fare un po' di lotta, senza paura, con Roberto. A Marina e Giulio è più difficile avvicinarsi ma loro hanno i loro amici, l'Università, la loro vita; così Alì può godere di essere un “figlio unico” un po' speciale.
Non mancano altri momenti difficili: quando inizia a frequentare una scuola così diversa dalla sua nella quale si sente un marziano; quando a casa, quella vera, nasce un altro fratellino; quando nelle telefonate li sente tutti uniti, insieme e tanto lontani....
Finalmente esplode la rabbia per il suo esilio dorato, la sua esclusione, la malattia che lo fa sentire un figlio di serie B, la paura di essere rovinato per sempre e forse... di morire.

L'estate si avvicina e la leucemia regredisce, siamo tutti pieni di speranza. Nel caldo pomeriggio di fine giugno Marta e Roberto arrivano all'appuntamento molto arrabbiati:. "Dottoressa non ci dica che non dobbiamo farlo perché questa volta accettiamo!" è il grido di Marta che mi chiede così di aiutarla invece ad essere ragionevole. "I genitori di Alì vogliono che noi lo adottiamo, ce lo hanno detto ieri e sopratutto lo dicono chiaramente a lui ogni volta che gli telefonano!". Nel tono della sua voce tutto il dolore di Alì nel sentire quello che sembra un rifiuto, l'essere buttato del tutto e per sempre fuori dalla famiglia, dalla casa, dal paese, dalla sua vita.
I dottori che non fanno le punture hanno spesso dei compiti delicati e difficili e nella lunga telefonata di chiarimento con la famiglia “africana” emerge una realtà ancora più triste e dolorosa. La mamma e il papà di Alì non sono dei mostri senza sentimenti, vivono in un paese dove manca tutto e dove due stipendi bastano a malapena, e non sempre, a far mangiare tutti. Alì ha avuto una fortuna incredibile! Separarsi da lui significa permettergli e offrirgli un futuro che loro non potranno mai dargli, una vita che loro non potranno mai fare. Non possono buttare via questa occasione!

Alì è tornato a casa perché i papà e le mamme che vogliono bene non si perdono mai. Per molti anni è tornato in Italia: per essere curato, per le vacanze, per gli studi superiori.

Il 16 dicembre, dopo una laurea triennale in lingue e multiculturalità si è laureato in Scienze Politiche.



24 settembre 2012                                      Donatella Fiocchi