C'era
una volta.... le storie, si sa, cominciano sempre così; allora c'era
una volta una giovane psicologa con la voglia di cambiare il mondo,
un grande entusiasmo e una grande speranza...... ma i tempi delle
società sono molto diversi da quelli delle persone.
Così
il tempo è passato e oggi c'è una vecchia psicoterapeuta, un po'
stanca, ma che conserva ancora qualche speranza.
In
effetti una riflessione sui bisogni psicoaffettivi dei bambini e sui
problemi delle famiglie appare più’ che mai indispensabile. Prima
di tutto perché’ man mano che aumentano gli studi e le esperienze
intorno a questo ambito e’ sempre più’ evidente che i due
termini della relazione sono ancora più’ strettamente collegati
di quanto possiamo immaginare, anzi in realtà’ si tratta dello
stesso problema.
In
secondo luogo perché’ il lavoro sul campo che si svolge ormai da
molti anni nei e con i Servizi Territoriali che si occupano
dell’infanzia, confortato da numerosi, importanti e approfonditi
studi e ricerche internazionali, hanno dimostrato che ci sono
possibilità’ non solo di avviare ma anche di realizzare spesso
processi di cambiamento e di crescita con risultati duraturi.
Molte
volte in questi anni, in più’ di una occasione mi sono trovata
a riflettere su “chi erano” in realtà’ i bambini messi al
centro quando mi imbattevo in progetti per minori, decreti o
battaglie legali fatti in nome dei “bambini” ma che li
trascinavano invece in complicati e assurdi spostamenti o
organizzazioni che i loro bisogni li soddisfacevano ben poco.
Eppure
tutti gli adulti che erano coinvolti in quelle vicende: psicologi,
insegnanti, genitori ecc.
erano sinceramente impegnati a costruire qualcosa per il loro
benessere; cosa interveniva, come mai era cosi difficile costruire
qualcosa di adeguato?
Più’
cercavo di capire e più’ mi addentravo in storie difficili e
dolorose.
Ero
partita con le idee chiare: bastava intervenire con decisione e tutto
si sarebbe sistemato, e mi trovavo invece a non sapere più’ da che
parte stare, dietro quei bambini, i “miei” bambini ce n’erano
altri, i loro genitori e ancora prima altri, i loro nonni, tutti
bambini che non avevano potuto essere bambini, che avevano dovuto
arrangiarsi, o peggio soccombere, essere usati, violati, perduti.
So
bene di non dire niente di nuovo. Il fatto che il “disagio”
minorile come si chiama in termine tecnico, costituisca una lunga,
lunghissima catena intergenerazionale e’ ormai fatto ampiamente
noto e viene sottolineato spesso da tutti gli addetti ai lavori. Mi
sembra pero’ importante riprendere da li’, dalle mie impressioni
di allora che ho condiviso con decine e decine di colleghi durante
questi 30 anni, che ritrovo con la stessa pena e lo stesso peso,
appunto, dopo 30 anni di lavoro, di preparazione, di studi e di
interventi.
Vecchiaia?
Senz’altro. Impreparazione? Forse. Incapacità? può darsi. Me lo
sono chiesta ripetutamente in questo ultimo mese ogni volta che piena
di entusiasmo mi mettevo a preparare il mio intervento di oggi.
infatti
alla lettura dei nomi e del ruolo dei relatori di oggi, del
programma e degli obiettivi mi ero sentita piena di idee: mille cose
da dire si erano affollate alla mia mente, nomi, casi vissuti,
progetti, metodi sperimentati. Invariabilmente di fronte alle pagine
da riempire di parole per poter comunicare qualcosa di sensato, tutto
spariva, un peso, una pena occupava tutta la mia mente e rendeva
difficile trovare il resto.
Era
in realtà’ questo il primo aspetto del problema, quello di fronte
a cui tutti si trovano quando vogliono “vedere”: un bambino in
difficoltà’ e ancora peggio ignorato, maltrattato, abusato va a
toccare corde cosi’ profonde dentro di noi, arriva spesso, anche
nella migliore delle vite, a risvegliare dolori cosi’ lontani e
ormai incomprensibili che “non vorremmo vedere”.
“I
bambini devono essere felici... voglio che mio figlio sia felice e
non soffra mai”, sono frasi comuni e desideri di tutti, il bisogno
di allontanare un dolore intollerabile con una immagine ideale.
E’
una difesa comune dentro tutti noi e diventare adulti, far crescere
definitivamente il bambino che siamo stati significa proprio
accettare che nessuno
può’ togliere il dolore, una parte di dolore e’ inevitabile.
Razionalmente
lo sappiamo e riusciamo anche abbastanza a far fronte ai normali
problemi, ma il dolore profondo e inelaborato che esprimono e ci
portano le famiglie che chiamiamo <in difficoltà> e ancora di
più i loro bambini ci sommerge e ci fa tornare spesso a quella
condizione di impotenza della nostra infanzia.
Anche
l’idea di genitori che non sono capaci o buoni,
anche se mentalmente chiara, muove dentro di noi lontane e ormai
inconsce paure ed emozioni, quelle delle nostre rabbie infantili e
del nostro terrore di perderli o di averli rovinati per sempre.
Infine
ancora più difficile è arrivare a formulare il progetto di
separare un figlio dai propri genitori perché questo va ancora più
profondamente a toccare quel meccanismo con basi biologiche che è
l’attaccamento cioè il bisogno di protezione per la sopravvivenza
della specie che fin dai primordi dell’umanità ci accomuna agli
altri mammiferi.
Tutto
questo se non possiamo divenirne consapevoli spinge chiunque venga a
contatto con queste realtà :
- A minimizzare e a non vedere perché’ questo e’ un modo inconscio per soffrire meno (questa difesa e’ tanto più’ forte quanto maggiore e’ il dolore per quello che succede. Possiamo ricordare quello che succedeva in Germania di fianco ai campi di sterminio dove i contadini “non vedevano” quanto avveniva.).
- A intervenire portando sollievo materiale:oggetti, cibi, soldi perché (sempre inconsciamente) la mancanza di cose materiali viene sentita come causa principale in quanto sicuramente più facile da affrontare ed eliminare. Spesso in tutti gli interventi “sociali” viene indicata almeno come una delle concause mentre per chi lavora da molto tempo in questo settore è ormai chiaro che la carenza di mezzi economici (naturalmente in condizioni di normalità’) è la conseguenza di una incapacità ad essere adulti e perciò a procurarsi e mantenere tali mezzi.
- A esercitare riprovazione e trovare colpevolezze. Anche questo ha alla base un meccanismo di difesa inconscio che permette di tollerare un po’ meglio il dolore in quanto permette a chi soffre di aggrapparsi all’idea che se chi e’ colpevole non lo fosse i bambini starebbero bene e non avrebbero problemi.
Tutto
questo sembra molto banale ma non lo è perlomeno fino a quando non
ci accorgiamo che succede dentro di noi e intorno a noi; che ci
impedisce di vedere
il
bambino vero che sta lì fuori di noi, davanti a noi, con tutte le
sue fragilità e bisogni ai quali dobbiamo provvedere adesso in modo
che cresca più sano dei suoi genitori.
Questo
costituisce il freno più frequente quando ci troviamo a dover
decidere di separare i bambini dalla loro famiglia. Il senso di colpa
che proviamo spesso proviene da quei nostri sentimenti lontani che
vediamo moltiplicati nel dolore di questo
bambino e dei suoi genitori.
Crescere
per tutti significa superare il dolore di quella separazione e
accettare che la sofferenza esiste ma molto si può fare.